E il Logos divino divenne carpentiere

Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria […]?». Marco 6,1-6

Marco, in questo importante brano, ci dice chiaramente che Gesù non era soltanto “figlio del carpentiere” ma era lui stesso “carpentiere”. Una bella notizia per chi lavora e per la nostra società civile, che si ritrova il Cristo come pietra angolare della democrazia, fondata sul lavoro. Marco, il Vangelo più antico e quindi più vicino ai testimoni diretti della vicenda storica di Gesù di Nazaret, ci dice che Gesù era un artigiano, un lavoratore manuale.

La tradizione dopo Marco non è stata capace di reggere questa condizione di lavoratore manuale di Gesù, che fu considerata troppo umile per il Figlio di Dio, a partire da Matteo che preferisce parlare di «figlio del carpentiere» (13,55). Da qui l’idea, molto radicata nella storia della Chiesa, che il carpentiere-lavoratore fosse Giuseppe, ma non Gesù, che in quanto Dio non poteva abbassarsi fino al livello infimo della segatura.

E invece la teologia cristiana e la nostra civiltà hanno tutto e solo da guadagnare da un Logos diventato carpentiere. Perché in un mondo antico, incluso quello medio-orientale, che considerava il lavoro delle mani meno nobile della preghiera e del lavoro intellettuale (e dopo duemila anni continua a farlo), il solo fatto che Dio, emigrante dalla Trinità, non trovò luogo migliore di un’officina artigianale dove formarsi e crescere, parla direttamente di cosa è il lavoro e la sua infinita dignità.

Marco, poi, ci parla delle difficoltà che Gesù incontra con la sua famiglia e la sua gente, tratto costante nei primi capitoli di questo Vangelo. Come molti profeti (ad esempio Geremia), anche Gesù per poter svolgere la sua missione si scontra prima di tutto con la sua cerchia familiare. Destino che continua nelle esperienze profetiche di oggi, quando coloro che non capiscono e non riconoscono una vocazione sono le persone più vicine – come la moglie di Giobbe.

IL DESTINO DEI PROFETI.

Un destino tanto più probabile e severo quanto più la comunità di provenienza del “profeta” si considera già spirituale e profetica, e in quanto tale non ha bisogno di nuova profezia. Chi combatte il profeta è quasi sempre la comunità che avrebbe più bisogno di quel profeta; ma Gesù, e molti profeti veri, vanno avanti e finiscono per dare la vita anche e soprattutto per quella patria che non l’aveva capito e lo aveva respinto. Gesù trascorse molti anni nella falegnameria con suo padre Giuseppe. Il primo odore della sua casa era l’odore del legno. Un legno che, quegli antichi falegnami, andavano direttamente a procurarsi nei boschi, lo spellavano, e poi lo facevano diventare tavoli, sedie, mobili.

Anche i romani erano soliti usare legno fresco per fare le loro croci. Legno giovane, spellato, su cui inchiodavano i condannati a morte. E come ha ripetuto più volte Erri de Luca, quando Gesù si ritrovò al culmine della sua vocazione fissato su una croce di legno giovane spellato, risentì l’odore dell’officina di casa, lo stesso odore buono dei vestiti di Giuseppe e di Maria. Una vita spesa nell’umile lavoro gli guadagnò questo ultimo respiro familiare.

 

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2 luglio 2021, annabellanecchi