Nutrire la Fede – LA FATICA E LA BELLEZZA DELL’EVANGELIZZAZIONE

A cura dell’Equipe Pastorale

Meditazione su At 17,16-34

Il tema dell’incontro del lunedì o del sabato prossimi

 

Ad Atene, in piazza. Pur avendo perso la rilevanza politica ed economica che l’aveva resa celebre in epoca classica, la città di Atene, nel I secolo, restava un centro religioso e culturale di prim’ordine. Si trovavano qui numerosi templi dedicati alle varie divinità pagane, oltre ai numerosi busti del dio Hermes che adornavano i colonnati della città. Nonostante l’indignazione che, da cristiano di origine giudaica, egli prova davanti a culti da lui ritenuti idolatrici, Paolo non si sottrae al confronto e al dialogo. Si reca nell’agorà, la piazza principale dove gli uomini ateniesi s’incontravano per scambiare merci, parole, idee, ed entra in discussione con gli ambienti più colti della città, rappresentati dai filosofi cinici e stoici. La reazione di questi ultimi va ben oltre la derisione. Un ateniese, infatti, sapeva bene che, proprio per aver propagandato divinità straniere (come Paolo sembra stia facendo con i suoi discorsi), il più grande filosofo ateniese, Socrate, vissuto alcuni secoli prima, era stato condannato a morte. Nonostante l’incomprensione e l’implicita minaccia, Paolo non si sottrae al dialogo, nel quale spera di poter annunciare la buona novella di Gesù. Anche in quella religiosità lontana dalla propria fede, egli intravede la possibilità che i cuori possano aprirsi all’annuncio della salvezza operata in Cristo.

La curiosità come possibilità. In antichità, la curiosità degli ateniesi era proverbiale. Già alcuni secoli prima (IV sec. a.C.), l’oratore Demostene si era rivolto loro con queste parole: «Volete andare sempre per le strade interrogando gli uni e gli altri: Che si dice di nuovo?» Demostene, Prima Filippica 4,10.. Certamente, anche Paolo conosce bene questo tratto dei suoi interlocutori. Ed è proprio di questo fattore che egli sembra voler approfittare per poter arrivare ad annunciare loro il messaggio cristiano. Una costante della missione evangelizzatrice di Paolo è l’attenzione ai suoi interlocutori e ai destinatari delle sue lettere. Spesso, il Vangelo da lui annunciato si rivolge alle domande di senso e ai bisogni degli uomini da lui incontrati. La curiosità degli ateniesi non va banalizzata: in fondo, anche in modo inconsapevole, essi avevano da sempre cercato, con la loro indagine filosofica e le loro scienze, la verità sull’uomo e sul cosmo intero. Proprio questa curiosità viene intercettata da Paolo, nella speranza che essa possa diventare «porta» per il Vangelo.

Dal dio ignoto al Dio che si rivela. Paolo inizia il suo discorso con un esordio, la cui funzione retorica era quella di predisporre l’ascoltatore in modo favorevole, una sorta di captatio benevolentiae: è questo il motivo per cui evidenzia la religiosità degli ateniesi, sebbene il termine utilizzato (deisidaimon) possa avere anche l’accezione negativa di «superstizioso». Paolo non adopera subito il linguaggio della fede cristiana, che sarebbe risultato incomprensibile ai suoi interlocutori, ma parte da una credenza diffusa nell’antica Grecia: erano disseminati sul territorio altari in onore di dèi sconosciuti, eretti per tutelarsi dalla collera di possibili divinità straniere (qualora fossero esistite). Tuttavia, la pietà ateniese era destinata a rimanere nell’ignoranza, perchè si configurava come un tentativo umano di elevarsi al divino. Paolo invece annuncia agli Ateniesi «ciò che essi non conoscono», identificando Dio con una divinità ignota; offre a loro una parola che permette di uscire dalla loro condizione d’ignoranza, parola che soltanto il Dio vero può aver rivelato. Lungi dall’essere uno sforzo dell’uomo di raggiungere il divino, la fede cristiana è accoglienza della grazia di una rivelazione: Dio stesso vuole farsi conoscere a tutti!

Il Dio creatore … Dopo l’esordio, in cui ha dichiarato lo scopo del suo discorso, Paolo introduce la sua argomentazione. L’Apostolo parte da un dato indiscusso nella filosofia antica, sebbene declinato secondo diverse credenze: il mondo era opera della divinità. Per il giudeo (e cristiano) Paolo, il cosmo è opera del Dio creatore: da questa verità, che affiora fin dalle prime pagine della Scrittura, egli parte per annunciare il suo messaggio. Il Dio biblico non è soltanto colui che ha creato i cieli all’inizio del tempo (poièsas, participio aoristo: v. 24, quindi un’azione avvenuta e terminata nel passato) per poi disinteressarsene, ma è il Dio provvidente, che continuamente elargisce vita e doni a ogni cosa (didous, participio presente: v. 25; Dio tuttora compie queste cose). Egli ha posto nelle sue creature, specie nell’uomo, creato secondo la sua immagine e somiglianza (Gen 1,26), il suo soffio vitale (Gen 2,7).

… ma non a misura umana. Pur manifestando nelle sue creature, soprattutto nell’uomo, la sua grandezza, bontà e bellezza, il Dio predicato da Paolo non può essere costretto dall’uomo all’interno di templi, simulacri, sacrifici. Nelle religioni antiche, si riteneva che la presenza delle divinità fosse vincolata ai templi, dov’era custodita la statua del dio. Già alcuni filosofi greci, come il fondatore dello stoicismo, Zenone, avevano criticato e irriso una concezione antropomorfa del divino. Ora, Paolo, in linea con la fede d’Israele, annuncia qualcosa di diverso:

Il Creatore trascende il mondo e tutte le sue creature a tal punto che nessun essere creato può arrivare a esaurire il suo mistero. La creazione dice qualcosa di Dio, ma a partire dalle creature si può arrivare a una conoscenza incerta di Dio, che procede solo a tentoni (v. 27). Sebbene Dio riveli qualcosa di sé nelle sue opere, queste non sono sufficienti a fornire una sua piena conoscenza.

Un discorso ambivalente. Dell’argomentazione di Paolo sorprende la sua capacità di ricorrere a un linguaggio in grado di coniugare le credenze dei filosofi a cui Paolo sta parlando e la fede cristiana.

Quando l’Apostolo dice che Dio crea tutti gli uomini «da uno solo» (v. 26), quest’espressione poteva essere intesa in senso filosofico («da un principio solo») e in senso giudaico (dal primo uomo, secondo il racconto di Gen 1–2).

Quando allude all’ordine dei tempi, questi possono essere semplicemente le stagioni (secondo la visione comune) oppure i vari momenti che avevano scandito la storia della salvezza, operata da Dio per Israele.

Questa dinamica appare in modo ancor più evidente quando afferma che «in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (v. 28), citando il poeta Arato di Soli (III sec. a.C.), che presenta l’umanità come stirpe discendente dal divino. Queste parole possono essere intese sia secondo la visione panteistica (tipicamente stoica), secondo cui Dio è presente in tutte le cose, considerate come sua emanazione, sia secondo la visione biblica, secondo cui Dio, pur restando altro dalle realtà del mondo, ne è creatore e origine. Pur conoscendo gli errori della visione del mondo condivisa dai suoi interlocutori, Paolo si pone sul loro terreno, nel tentativo di rendere accessibile l’annuncio unico e sconvolgente della risurrezione di Gesù. Senza conformarsi alle credenze erronee dei filosofi greci, l’Apostolo non assume un atteggiamento di condanna, ma tenta d’inculturare il Vangelo proprio ad Atene, centro della cultura antica.

La rivelazione in Gesù. Dopo aver argomentato attingendo al bagaglio culturale e linguistico dei suoi interlocutori, Paolo giunge alla conclusione del suo discorso, che egli ha sapientemente preparato. Il Dio, fino a quel momento rimasto ignoto ai gentili, ha voluto «passare sopra» i tempi dell’ignoranza, facendosi conoscere in un uomo mediante il quale tutti gli esseri umani possono trovare salvezza. Condizione necessaria è la metanoia, che consiste in un «cambiare mente». La conversione è ciò che permette all’uomo di uscire dall’ignoranza per aprirsi a riconoscere ciò che è autenticamente vero, buono e bello. Paolo mantiene viva una certa curiosità nei suoi ascoltatori, non rivelando espressamente l’identità di quell’uomo di cui parla e che Dio ha scelto per farsi conoscere facendolo risorgere dai morti. La risurrezione di Gesù è la risposta di Dio al più grande interrogativo del cuore umano; la risurrezione di Gesù sconfigge la paura più angosciante che segna l’esistenza di ogni uomo e donna; la risurrezione di Gesù è l’evento che i missionari cristiani hanno posto al centro del loro annuncio, come Luca illustra costantemente negli Atti (2,22-36; 3,13-26; 4,10-12; 10,39-43; 13,27-39; 26,23) e Paolo conferma nelle sue lettere (1Cor 15). Senza la Pasqua, non c’è autentica conoscenza di Dio, perché la morte e risurrezione di Gesù costituiscono il vertice della sua rivelazione.

Un risultato deludente? Il discorso di Paolo suscita derisione nei suoi ascoltatori. Per la mentalità greca, fortemente influenzata dalla visione platonica del corpo come «tomba dell’anima», secondo cui soltanto la componente spirituale sopravviveva dopo la morte, l’idea di una risurrezione della carne sarebbe risultata alquanto problematica: basti pensare alla resistenza che la fede nella risurrezione troverà nella comunità cristiana fondata da Paolo a Corinto (1Cor 15). Alcuni studiosi interpretano il discorso paolino all’Areopago come un fallimento, motivato forse dall’assenza di qualsiasi riferimento alla croce di Gesù, verità centrale e non bypassabile della fede cristiana. Ma le parole di Paolo, con cui egli ha tentato una sintesi tra riflessione filosofica e fede biblica, fanno breccia in alcuni dei presenti, fra cui un personaggio autorevole (Dionigi, membro dell’Areopago) e una donna (categoria di persone a cui Luca presta sempre particolare attenzione). L’esito del discorso di Paolo evidenzia la difficoltà di tradurre il Vangelo nei diversi linguaggi umani: una sfida complessa, talora anche ardua, ma ugualmente affascinante e ineludibile per i credenti di ogni tempo.

20 febbraio 2023, annabellanecchi