Io sono il pane vivo, disceso dal cielo

 

Commento al Vangelo: Gv 6,41-51 

Il brano liturgico odierno fa parte del lungo e importante discorso presente in Giov.6, 26-58.

Ricordiamo che il 4° evangelista non riporta l’istituzione dell’Eucarestia, già nota grazie ai vangeli sinottici; ma nel 6° capitolo, dopo la moltiplicazione dei pani, Giovanni ci offre uno dei suoi tipici “discorsi di rivelazione” che si configura come una sorta di “trattato teologico” sull’Eucarestia. Nella fattispecie la pericope in oggetto sviluppa due temi fondamentali: la fede in Gesù “disceso dal cielo” e il fatto che Egli stesso sia il pane che dona la vita eterna.

Il testo inizia con una mormorazione (termine biblico per indicare dubbio, sfiducia, incredulità, protesta) da parte dei Giudei, perché Gesù aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”; le sue origini – essi obiettano – non possono essere celesti, perché noi sappiamo bene chi è: il figlio di Giuseppe il falegname!

La loro incredulità riguarda l’incarnazione del Cristo, lo scandalo di una origine terrena e umile a tutti nota (cfr. Mc.6,3) che contraddice e rende assurda l’affermazione di essere “il pane disceso dal cielo”. Essi non accettano una presenza divina che assume i tratti non dello splendore e della potenza (come erano le teofanie nel Primo Testamento), ma quelli della storia comune.

Gesù, per tutta risposta, non dà la spiegazione che i Giudei si aspettavano, ma li invita a non mormorare (cioè ad avere fede) e soprattutto ad aprirsi all’attrazione del Padre e al suo ammaestramento: solo se la coscienza ascolta la voce intima di Dio, solo se ci si lascia raggiungere dalla grazia, è possibile superare lo scandalo e raggiungere la fede e la fiducia nel Figlio di Dio.

E poiché, come si legge subito dopo, “solo colui che viene da Dio ha visto il Padre” (v.46 b che riecheggia il Prologo, v.18), non si può essere “ammaestrati da Dio” se non ascoltando e credendo alla parola di Gesù, che appunto è venuto dal Padre per manifestarLo agli uomini. In altri termini, all'”attrazione interiore” di Dio corrisponde un “insegnamento” esteriore ad opera del suo Inviato.

Dunque, in buona sostanza: se i Giudei desisteranno dalla loro mormorazione, che è un rifiuto di credere, e si apriranno alla mozione di Dio, Egli li attirerà a Gesù.

“Io sono il pane della vita….”(v.48).

L’affermazione era già stata fatta al v.41 e sarà ripetuta ai vv.51 e 58, secondo lo stile giovanneo di tornare a riprese successive sullo stesso concetto approfondendolo ogni volta. E’ interessante notare che la drastica affermazione di Gesù risulta il compimento definitivo di tutta una serie di promesse presenti nel 1° Testamento: l’albero della vita di Gen.3,24 e Prov.3,18; la manna che rimanda alla Parola di Dio di Deut.8,3; la sapienza che coincide con la Legge di Sir.24,22; fame non di pane, ma di ascoltare la Parola di Dio di Amos 8,11; la Legge scritta nei cuori di Ger.31,33. Le promesse di salvezza, implicite nel dono della manna, della legge e della sapienza, giungono ora a compimento nella missione storica di Gesù, il vero pane disceso dal cielo e pane della vita piena. Proprio Lui, il figlio del falegname, riassume in sé tutta l’attesa del Primo Testamento e la porta a compimento. Egli è il “mediatore” che unisce nella sua persona la divinità e l’umanità; è l’insegnamento pieno del Padre, è il vertice della Rivelazione.

In particolare risulta assai significativo il confronto di Gv.6,48 con Gen.3,22. “perché l’uomo non ne mangi e viva sempre”: quell’albero della vita, di cui Adamo con il suo orgoglioso peccato ci aveva sbarrato l’accesso, ora in Cristo ci viene di nuovo donato. Già Gregorio di Nissa (sec.IV°) presentava il pane eucaristico come un antidoto al frutto proibito.

Il brano prosegue: “I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti” (v.49); cioè: il nutrimento della manna-Legge si è dimostrato inefficace per comunicare la vita che non muore.

v.50: “Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia”; cioè: il pane del cielo che è Gesù abolisce per sempre la morte per colui che ne mangia; già in Giov.5,24 Gesù aveva detto: “Chi ascolta la mia parola……ha la vita eterna…..ed è passato dalla morte alla vita”.

Questo pane che scende senza sosta dal cielo, allude all’incessante comunicazione di vita da parte dello Spirito.

“Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (v.51 b)

“Nel vangelo di Giovanni “vita eterna” non indica tanto la sopravvivenza oltre la morte…….., ma è sinonimo di “vita divina”: attraverso il pane di vita offerto dal Cristo il credente entra nella stessa vita di Dio, partecipa del suo essere, Dio si comunica a lui, lo invade, lo pervade, lo trasforma……….è l’irruzione della pace che l’Eucarestia genera nella vita del fedele, è l’anticipazione della perfetta intimità e della gioia piena che avremo quando, varcata la soglia della vita terrena, “saremo sempre col Signore” (1° Ts.4,17)” (G. Ravasi)

“…e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v.51 c). Qui troviamo il nesso fondamentale tra il dono della propria vita fisica sulla croce da parte del Salvatore e l’Eucarestia, il pane-corpo di Gesù dato in cibo al fedele. Il Pane eucaristico è il corpo di Cristo donato fino alla morte, è il suo sangue versato, la sua vita spezzata (come il pane che si spezza con le mani, non si taglia) per noi fino alla morte.

Fino all’ultimo respiro, il Messia ha fatto della sua esistenza un dono di salvezza e di misericordia, comunicando la sua forza vitale a quel pane che dona la vita eterna a chi se ne ciba con fede. Con la morte dell’uomo Gesù la vita del Figlio non resta più solamente in Lui, ma diventa comunicabile ai suoi.

E’ evidente che un “miracolo” così straordinario (il dono di Sé all’uomo da parte di un Dio per elevare l’uomo stesso alla Sua dimensione) non è assolutamente pensabile da mente umana, ma, come abbiamo visto, è frutto della duplice rivelazione (interiore ed esteriore) del Padre e del Figlio.

Com’è noto, ogni brano evangelico va considerato a tre livelli: quello contemporaneo a Gesù, quello della comunità cristiana in cui si formò la tradizione evangelica, quello del redattore finale.

Così l’obiezione dei Giudei che mormorano è certamente relativa al tempo di Gesù, ma è anche una forte obiezione dei Giudei contemporanei dell’evangelista a quanto veniva annunciato circa l’origine e la persona del Cristo. Uno dei primi Padri della Chiesa, S.Ignazio di Antiochia (70-130 d. Cr.), che operava nelle stesse comunità di Giovanni (in Asia Minore: Smirne, Efeso, etc.) ci testimonia che in quegli anni due grossi ostacoli si opponevano alla fede in Cristo (ne parla anche la 1° lettera di Giovanni al cap.4°) sia da parte dei Giudei che all’interno della comunità:
– si negava l’incarnazione del Figlio

– si negava che l’Eucarestia fosse la carne del Figlio.

Ora, nel ribadire chiaramente la verità, Giovanni preferisce usare il termine “sarx”=carne (v.51 c), invece del più tenue

“soma”=corpo (che troviamo in Paolo e Luca nella formula dell’istituzione dell’Eucarestia), e, come fa nel Prologo (Giov.1,14: “il Verbo si fece carne”), insiste sulla realtà dell’incarnazione, come antidoto anche alle eresie allora serpeggianti nella comunità.

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6 agosto 2021, vincenzo-lioi